Previdenza complementare: 25 anni dopo.

Previdenza complementare nel Comparto Sicurezza e Difesa:

25 anni dopo.

 

  Una recente sentenza della Corte dei conti della Puglia, la n.207 del 2020, riconoscendo il diritto al risarcimento del danno ad un militare ancora in servizio, che ha agito per far valere il pregiudizio che gli deriverà, al momento del pensionamento con il sistema c.d. misto, dalla perdurante mancata attivazione della previdenza complementare, ha riacceso l’attenzione su una questione che si trascina irrisolta ormai da venticinque anni, suscitando nuove speranze tra quanti, loro malgrado, ne sono stati e ne sono coinvolti.

  L’evenienza offre l’occasione per ripercorrere, sia pure brevemente e schematicamente, la problematica, ricapitolare le strade sinora percorse per cercare di risolverla e, quindi, fare il punto su ciò che ci si può attendere dopo questa pronunzia e si può ancora tentare, perché, anche nel settore del pubblico impiego c.d. non privatizzato e, in particolare e per quanto qui interessa, nel Comparto Sicurezza e Difesa, possa finalmente arrivare a vedere la luce quella “creatura” da tempo concepita, ma ancora bel lontana dall’esser nata, che è la previdenza complementare.

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  Nel riformare il sistema pensionistico, la Legge n.335/1995 (c.d. Legge Dini) ha previsto, come noto, un sistema di calcolo retributivo per i dipendenti con 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995, un sistema misto (parte contributivo e parte retributivo) per i dipendenti con meno di 18 anni di contributi a quella data ed un sistema interamente contributivo per i dipendenti assunti dal 1° gennaio 1996.

  Poiché, con il sistema retributivo, la pensione viene calcolata sulla base della media delle retribuzione degli ultimi dieci anni, mentre, con il sistema contributivo, la pensione viene calcolata sulla base dei contributi versati, sia pure rivalutati annualmente, ed analogamente accade nel sistema misto per le annualità successive al 1995, ciò che implica un importo di pensione notevolmente inferiore a quello conseguibile nel sistema retributivo, la Legge n.335/1995, nel dettare la disciplina di riforma, ha previsto il contestuale avvio di forme di previdenza complementare, da alimentare mediante contribuzione a carico in parte dello Stato (previa trasformazione del TFS in TFR e conseguente accantonamento anno per anno di una quota dell’aliquota contributiva relativa al TFR), onde garantire appunto adeguati livelli di copertura a tutti i lavoratori ricadenti nel sistema contributivo puro e nel sistema misto.

  Diversamente da quanto accaduto per il personale dipendente dalle Amministrazioni Pubbliche di cui all’art.1, comma 2°, del D.Lgs. n.165/2001, ossia per il pubblico impiego c.d. contrattualizzato, la previdenza complementare non ha però avuto il previsto avvio per personale delle Forze Armate e delle Forze di Polizia, ad ordinamento civile e militare.

  Ed infatti, premesso che, per questa parte di pubblico impiego, l’istituzione delle forme pensionistiche complementari è stata demandata dalla Legge n.448/1998, prima e, poi, dal D.Lgs. n.252/2005, poi, alle procedure di concertazione e di negoziazione di cui al D.Lgs. n.195/1995, e successive modificazioni e integrazioni, il prescritto iter procedimentale di attivazione ancora non ha avuto utile avvio e, quindi e tanto meno, trovato conclusione.

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  Per forzare il sopra descritto stato di cose, un consistente numero di interessati, ormai già più dieci anni orsono, si è rivolto al Giudice Amministrativo, al fine di ottenere il rinvio del passaggio dal previgente sistema pensionistico retributivo a quello contributivo (in tutto o in parte), fino al momento della effettiva istituzione del c.d. secondo pilastro, e cioè e appunto della previdenza complementare.

  Il tentativo è stato immediatamente respinto, in quanto si è ritenuto che sull’azione proposta non sussistesse la giurisdizione del Giudice Amministrativo, bensì quella della Corte dei Conti – vertendosi in materia di trattamento di pensione e relativa misura –, e, comunque, che fosse da escludere la configurabilità di un diritto ad ottenere l’istituzione del c.d. secondo pilastro, tenuto conto che, “per come … la si è concretamente disciplinata, la previdenza integrativa … può … realizzarsi … soltanto attraverso una complessa procedura amministrativa, destinata a concludersi con un provvedimento autoritativo. Di modo che i militari, interessati alla costituzione del “Secondo Pilastro”, possono vantare soltanto un interesse legittimo: consistente, appunto, nella pretesa a che l’Amministrazione eserciti i poteri all’uopo conferitile” (v., fra le varie, TAR Lazio, Roma, I bis, 08.03.2010, n.3479).

  Recependo l’indicazione così offerta, un non meno cospicuo numero di interessati, dopo l’invio, rimasto senza seguito, di atti di diffida e messa in mora ai Ministeri competenti per la convocazione dei tavoli di concertazione e di negoziazione, è tornato allora ad adire il Giudice Amministrativo, lamentando questa volta l’inerzia di quegli organi nell’esercizio delle funzioni ad essi demandate in materia e chiedendo quindi un intervento giudiziale sostitutivo, mediante la nomina di un commissario ad acta incaricato di avviare e portare a compimento le previste procedure istitutive.

  Mentre parte della giurisprudenza ha subito disconosciuto la legittimazione dei singoli ad agire per ottenere l’avvio dei tavoli negoziali (v., fra le varie, T.A.R. Lazio, Roma, I, 19.04.2010, n.7454, confermata da Cons. St., IV, 30.08.2011, n.4882: “l’appellante non ha alcun motivo di dolersi del preteso mancato avvio di detto procedimento, dal momento che egli … è solo un potenziale beneficiario delle misure attuative del nuovo sistema previdenziale complementare, configurato all’esito finale di dette procedure di negoziazione, ma non può certo partecipare alle procedure di concertazione che vedono protagonisti i soli soggetti a ciò preposti dalla legge”), altra parte della giurisprudenza ha riconosciuto invece tale legittimazione e l’azionabilità dell’interesse sottostante.

  Si è giunti, così, ad ottenere alcune pronunzie di accertamento giudiziale di un “obbligo per le Amministrazioni resistenti di provvedere sulle istanze dei ricorrenti” (v., fra le varie, T.A.R. Lazio, Roma, I bis, 23.11.2011, n.9187) e finanche di nomina di un commissario ad acta, incaricato di intervenire in via sostitutiva a fronte dell’ostinato perdurare dell’inerzia delle medesime Amministrazioni nel provvedere a dare attuazione a quell’obbligo (v., fra le varie, T.A.R. Lazio, Roma, I bis, 21.03.2013, n.2908).

  Lo “spiraglio” così aperto, tuttavia, è stato presto richiuso, in quanto il Consiglio di Stato è tornato a ribadire che “i dipendenti pubblici destinatari dell’attività contrattuale collettiva o del decreto presidenziale di recepimento degli esiti della procedura di concertazione sono titolari di un interesse “finale” e del tutto indiretto e riflesso, e non già di un interesse concreto, attuale e direttamente tutelabile in ordine all’avvio e conclusione dei procedimenti “negoziali” in questione, appartenenti – semmai – in via esclusiva alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative (per quanto attiene alle Forze di Polizia a ordinamento civile) e ai Comitati centrali di rappresentanza, sempre quali organismi esponenziali d’interessi collettivi (per quanto attiene alle Forze di Polizia a ordinamento militare e al personale delle Forze Armate), chiamati entrambi a partecipare ai predetti procedimenti negoziali” (v., fra le varie, Cons. St., Sezione IV, 04.02.2014, nn.502-504).

  Il che ha spinto la giurisprudenza “aperturista” a ripiegare su una posizione più restrittiva, e cioè, pur senza negare la legittimazione già riconosciuta ai singoli, a confinare però la possibilità di un intervento sostitutivo su impulso dei medesimi all’attuazione del solo “onere minimo … di attivare i procedimenti negoziali interessando allo scopo le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative ed i Consigli Centrali di Rappresentanza, senza tralasciare di diffidare il Ministro della Pubblica Amministrazione e la Semplificazione ad avviare le procedure di concertazione / contrattazione per l’intero Comparto Difesa e Sicurezza” (v., fra le varie, T.A.R. Lazio, Roma, I bis, 21.02.2014, n.2123). Attivazione che, pur poi prontamente operata, non ha tuttavia prodotto neppure lontanamente il risultato sperato.

  Tutti gli ulteriori tentativi successivamente effettuati di fronte al Giudice Amministrativo, onde ottenere un più incisivo intervento per l’avvio e la conclusione dell’iter procedimentale di istituzione della previdenza complementare, non hanno sortito, sinora, miglior risultato.

  Per di più, negando la propria giurisdizione in favore di quella della Corte dei Conti, il Giudice Amministrativo ha infine respinto anche le domande risarcitorie, che, non essendo riusciti ad ottenere l’istituzione della previdenza complementare, molti hanno ad esso rivolto, per cercare di avere quanto meno una riparazione al danno subito o subendo in conseguenza del perdurare della inattuazione del c.d. secondo pilastro previdenziale (v., fra le tante e più recenti, T.A.R. Lazio, Roma, I quater, 15.05.2019, n.6037 e II ter, 25.02.2020, n.2331).

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  L’infruttuoso esito dei tentativi esperiti di fronte al Giudice Amministrativo ha indotto allora a percorrere la strada “alternativa” della Corte dei Conti, che pure, tuttavia, si è presto rivelata non meno accidentata e, per ora, ugualmente inconcludente.

  Una rapida ricognizione delle pronunzie rese dalle Corti dei Conti regionali e, soprattutto, dalle Sezioni Centrali d’Appello consente di fissare i seguenti punti, in ordine a quello che è l’attuale orientamento del Giudice contabile, innanzitutto, circa i limiti ed i presupposti che definiscono la possibilità di adirlo in materia:

  • la Corte dei conti ha giurisdizione in ordine alla domanda “intesa ad ottenere l’affermazione dell’inapplicabilità … del sistema di calcolo contributivo, nelle more della mancata attivazione delle previste forme pensionistiche complementari” (v. C.d.C., Sezione Prima Appello, 28.11.2018, n.433);
  • il personale ancora in servizio, tuttavia, è privo del necessario interesse ad agire per ottenere “il calcolo della pensione secondo il previgente sistema retributivo, a causa della mancata attuazione del sistema di previdenza complementare”, in quanto la relativa domanda “difetta dei necessari presupposti che consistono nel possesso … dei requisiti per il collocamento a riposo d’ufficio o nell’accoglimento di una domanda amministrativa di collocamento a riposo, per aver svolto il periodo di servizio minimo richiesto dalla legge a tale scopo. E la carenza di attualità dello status di pensionati rende inammissibile il ricorso, poiché inteso a sindacare le modalità di calcolo di un trattamento pensionistico non attualmente spettante, ma solo ipotetico e futuro. Non sarebbe, infatti, possibile misurare e calcolare l’entità del pregiudizio economico che solo ipoteticamente potrebbe prodursi all’atto del futuro collocamento a riposo, con conseguente indeterminatezza dell’an e del quantum della pretesa fatta valere in giudizio” (v. C.d.C., Sezione Prima Appello, 11.10.2018, n.394 e n.395);
  • la Corte dei Conti non ha giurisdizione sulla domanda di risarcimento del danno per la mancata attivazione della previdenza complementare, che rientra “nella competenza del giudice del rapporto”, e cioè del Giudice Amministrativo, “come avvalorato … dalla consolidata giurisprudenza costituzionale in materia di fondi integrativi (C. cost., 28 luglio 2000, n. 393)” (v. C.d.C., Sezione Prima Appello, n.433/2018 cit.);
  • il personale ancora in servizio è comunque privo del necessario interesse ad agire anche soltanto per ottenere il risarcimento del danno da mancata attivazione del c.d. secondo pilastro, in quanto pure questa domanda è nel caso “mancante del requisito dell’attualità” (v. C.d.C., Sezione Prima Appello, n.394/2018 e n.395/2018 cit.), dato che, “nel periodo di tempo intercorrente sino al collocamento a riposo potrebbero sopravvenire misure di compensazione economica all’interno del sistema della previdenza complementare, atte a recuperare la situazione di svantaggio ora esistente, essendo ipotizzabili successivi interventi di settore in materia previdenziale” (v., fra le varie, C.d.C. Marche, 29.05.2017, n.34).

  Dalla rassegna che precede, sembra, allo stato, di poter concludere, che, perdurando ancora la mancata attivazione della previdenza complementare, la pretesa ad ottenere il calcolo del trattamento pensionistico secondo il sistema retributivo possa sì essere azionata di fronte alla Corte dei Conti, anziché di fronte al Giudice Amministrativo, però non prima del momento in cui si realizzino i presupposti per la presentazione della domanda di pensione o di quello della liquidazione della pensione stessa, antecedentemente difettando l’interesse concreto ed attuale necessario per poter adire il Giudice contabile.

  Stesso discorso può ripetersi rispetto alla domanda risarcitoria eventualmente da proporre in via subordinata rispetto a quella di cui sopra, con l’avvertenza, tuttavia, che la giurisdizione della Corte dei Conti su di essa riconosciuta da alcune Sezioni regionali è, al momento, negata dal Giudice d’appello.

  Ora, se, nei limiti e con i presupposti appena indicati, risulta oggi proponibile un ricorso alla Corte dei Conti, resta però che, sinora, in nessuno dei casi in cui chi ha agito lo ha fatto nell’osservanza dei primi e nella sussistenza dei secondi il risultato è stato quello sperato.

  Tutte le pronunzie rese nel merito, infatti, hanno sostanzialmente escluso che, a fronte della mancata attivazione della previdenza complementare, possa configurarsi l’esistenza di un diritto alla conservazione ed all’applicazione del precedente sistema retributivo di calcolo del trattamento pensionistico.

  Il che ha portato a negare poi anche la sussistenza di un danno da risarcire in subordinata alternativa, posto che si è ritenuto che, se non è configurabile un “bene” leso, non può neppure darsi una lesione da riparare.

  Nella più recente giurisprudenza, inaugurata dalla Corte dei Conti dell’Abruzzo con la sentenza n.40/2017, le ragioni del rigetto della pretesa principale, come (quando su di essa non si è esclusa la giurisdizione) di quella subordinata, si trovano in sintesi così formulate:

  • non v’è motivo di ritenere che il trattamento di pensione, pur ridimensionato rispetto al passato per effetto della riforma del 1995, non sia di per sé solo sufficiente ad assicurare al lavoratore in quiescenza mezzi adeguati alle esigenze di vita;
  • la previdenza integrativa, aggiungendosi al trattamento obbligatorio, è volta a consentire al lavoratore, sulla base di una scelta libera e informata, di beneficiare di un mero “complemento” del trattamento di quiescenza, aggiuntivo rispetto a quello assicurato dalla legge. Come tale, il trattamento integrativo non ha carattere “necessario” e resta in linea di principio ininfluente ai fini del raggiungimento dei livelli minimi di tutela costituzionalmente previsti, potendo esser variamente modulato dal legislatore nell’ampia discrezionalità di cui gode in materia;
  • è vero che i due pilastri sorreggono un unico architrave e che come tali fanno parte di un’unica struttura, ma ciò non implica affatto che il “primo pilastro” (della previdenza obbligatoria) non possa stare in piedi da solo; esso non è subordinato alla costruzione del “secondo pilastro” (della previdenza integrativa), ma semmai è il secondo che, siccome complementare al primo, può essere inteso come funzionale e ad esso asservito;
  • proprio in virtù della sua natura “complementare”, la costituzione di fondi pensione di categoria e la definizione delle relative caratteristiche, anche in punto di contribuzione a carico del lavoratore e del datore di lavoro, ben può essere demandata a successive procedure negoziali tra lavoratori e datore di lavoro;
  • pur in mancanza (o in attesa) della costituzione di un fondo di categoria “chiuso”, il “secondo pilastro” rimane pur sempre accessibile, in quanto qualunque lavoratore ha comunque la concreta possibilità di aderire ad un fondo pensione “aperto”, fruendo degli stessi benefici fiscali in relazione ai contributi versati, ai rendimenti maturati sul proprio montante individuale ed alle prestazioni erogate;
  • la mancata trasformazione del TFS del personale non contrattualizzato in TFR, del resto, pur pregiudicando, nell’attualità, la possibilità di conferire il TFR stesso ad un fondo pensione, comporta per converso la conservazione di un regime di calcolo di regola più vantaggioso e non ha influenza, in ogni caso, sul trattamento obbligatorio a carico dello Stato;
  • la problematica lamentata non risiede, conclusivamente, nella pensione liquidata (in tutto o in parte) con il sistema contributivo (che dal 1996 è il regime proprio di tutti), bensì nella mancata attivazione delle procedure di concertazione e negoziazione e, quindi, un ipotetico profilo di incostituzionalità va ricercato non nell’operata applicazione del “primo pilastro”, bensì e semmai nella assenza di presidi legislativi atti in qualche modo ad obbligare le parti ad addivenire all’istituzione di un fondo di categoria mediante quelle procedure;
  • non dandosi, per quanto sopra, un diritto o un’aspettativa legittima che, secondo gli elementi costitutivi tipici della responsabilità aquiliana, possano dirsi lesi, non si configura un danno da risarcire ed una pretesa utilmente azionabile a tal fine.

  Sembra abbastanza evidente, che l’effetto pratico che discende da quest’impostazione della attuale giurisprudenza contabile è di “rimpallare” al Giudice Amministrativo ciò che rimane della questione, una volta ridotta, come il riportato iter argomentativo porta a ridurla, nei termini di una mera ed eventuale responsabilità per la “discrasia” creata da ascrivere a quella che viene definita la “fattuale inerzia del Governo” e da far valere, pare di capire, sotto il limitato profilo di un danno da ritardo e, quindi e appunto, di fronte al Giudice Amministrativo.

  Ed infatti, se non esiste un diritto ad ottenere l’istituzione del c.d. secondo pilastro, come anche la giurisprudenza amministrativa ha già da tempo escluso, non è configurabile neppure una lesione di quel diritto della quale possa pretendersi il risarcimento.

  Dunque, il solo danno del quale potrebbe ipoteticamente pretendersi il ristoro, ma dal Giudice Amministrativo, sarebbe, al più, quello per il ritardo, ormai di cinque lustri, nella prevista attuazione del “secondo pilastro”.

  Ciò che, però, questa giurisprudenza della Corte dei Conti sembra trascurare, è che il Giudice amministrativo ha già da tempo escluso la sussistenza anche di questo più limitato tipo di pregiudizio, rilevando come “il ritardo nelle procedure non possa essere ascritto all’inerzia dei Ministeri intimati, bensì alle lentezze di un tavolo di concertazione del quale fanno parte anche i rappresentanti sindacali delle categorie lavorative interessate” (v., fra le varie, T.A.R. Lazio, Roma, I bis, 25.06.2019, n.8286) e, in più precisando, che anche l’interesse a far valere questo danno – peraltro, tutto da dimostrare nella sua consistenza – appartiene non ai singoli, ma, “semmai, in via esclusiva alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative (per quanto attiene alle Forze di Polizia a ordinamento civile) e ai Comitati centrali di rappresentanza, sempre quali organismi esponenziali di interessi collettivi (per quanto attiene alle Forze di Polizia a ordinamento militare e al personale delle Forze Armate), chiamati entrambi a partecipare ai predetti procedimenti negoziali” (v., fra le varie, T.A.R. Lazio, Roma, I, 17.02.2017, n.2738 e, fra le più recenti, T.A.R. Lazio, Roma, II ter, 22.06.2020, n.6864).

  Dunque e a ben vedere, anche nei più limitati termini in cui è stata ridotta dalla più recente giurisprudenza della Corte dei Conti, la questione connessa alla mancata attuazione del “secondo pilastro” non risulta, ad oggi, utilmente coltivabile dai singoli interessati neppure di fronte al Giudice Amministrativo.

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  Nel contesto sin qui descritto, è venuta ad inserirsi la sentenza n.207/2020, con la quale la Corte dei Conti della Puglia, dopo aver ripercorso le vicende che si sono appena richiamate, ha disconosciuto, in conformità all’orientamento ormai consolidato, l’esistenza di un “diritto al regime previdenziale” e, quindi, alla conservazione del sistema pensionistico retributivo fino alla costituzione del “secondo pilastro”, ma ha poi innovativamente ritenuto fondata, invece, la pretesa, avanzata da un militare ancora in servizio, ad ottenere dal Ministero della Difesa il risarcimento (del 25%) del danno (futuro) derivante dalla mancata istituzione della previdenza complementare, individuato quale “strumento per compensare le negative ripercussioni economiche che il ricorrente denuncia di subire dall’inerzia” degli organi preposti all’avvio ed alla conclusione del relativo procedimento, quantificate mettendo a “confronto il montante in regime di TFR, ossia in caso di avvio tempestivo del fondo pensione e contestuale esercizio dell’opzione, con quello in regime di TFS, ossia in caso di mancato avvio del fondo”.

  È senz’altro comprensibile l’entusiasmo suscitato da questa pronuncia, espressione di un approccio meno formalistico e, per così dire, più equitativo ad un problema al quale, da decenni, si stenta a trovare soluzione.

  Non può, tuttavia, sottacersi, che la decisione dovrà ora misurarsi con l’orientamento già espresso dalle Sezioni Centrali d’Appello, sopra richiamato, per il quale:

  • la Corte dei Conti non ha giurisdizione sulla domanda di risarcimento del danno per l’omessa attivazione della previdenza complementare, che rientra “nella competenza del giudice del rapporto”, e cioè del Giudice Amministrativo (v. C.d.C., Sezione Prima Appello, n.433/2018 cit.);
  • il personale ancora in servizio non è comunque legittimato ad agire neppure per ottenere il risarcimento del danno da mancata costituzione del c.d. secondo pilastro (v. C.d.C., Sezione Prima Appello, n.394/2018 e n.395/2018 cit.).

  Né in sede di appello, ove si superi lo scoglio della giurisdizione e poi anche quello della sussistenza dei presupposti processuali dell’azione, potrà non essere affrontato un altro aspetto di fondamentale rilievo, e cioè che se, come s’è visto unanimemente ritenuto dalla giurisprudenza contabile e come ritiene la stessa Corte dei Conti della Puglia, non esiste un “diritto al regime previdenziale”, resta da capire su cosa possa trovare fondamento una pretesa risarcitoria relativa alla lesione di un “diritto” che non c’è.

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  In attesa di conoscere la sorte della sentenza della Corte dei Conti pugliese, i tanti ancora interessati alla questione ben potranno nel frattempo cautelarsi con un’istanza interruttiva della prescrizione, che, laddove gli ostacoli di cui sopra dovessero essere felicemente superati, lascerebbero loro aperta la possibilità di coltivare in prosieguo di tempo domande risarcitorie del tipo di quella per ora accolta dalla sentenza in argomento.

  È chiaro sin da questo momento, però, che, per tale via, pur se avrà un utile seguito, non si perverrà in ogni caso a dare soluzione al problema della mancata attivazione della previdenza complementare.

  Giunti a questo punto, volendo tirare le fila di quanto detto, sembra di poter concludere, che, nell’immediato, la strada che resta senz’altro aperta e che, peraltro, non risulta esser stata ancora interamente percorsa è quella di un’azione diretta e decisa da parte degli organismi di rappresentanza o, come ora possibile dopo la sentenza n.120/2018 della Corte costituzionale, dei sindacati militari, e cioè un’iniziativa ad opera di uno o più quei soggetti che, in questi venticinque anni, sono stati unanimemente riconosciuti come titolari – e addirittura “in via esclusiva”, secondo la costante giurisprudenza del Consiglio di Stato –, dell’interesse “all’avvio e conclusione dei procedimenti “negoziali” in questione”.

  In questa direzione, varrà la pena di lavorare e da subito, onde evitare di trovarsi tra cinque lustri a trattare ancora della previdenza complementare come dell’isola che non c’è.

 

a cura dello Studio legale Coronas